Da quanto Terre des Hommes è attiva in Libano e quali sono le vostre attività specifiche?
TDH lavora in Libano dal 2006, da prima dell’ultima guerra con Israele, con un intervento in favore dei rifugiati palestinesi in campi profughi 40km a sud di Beirut, dove si trovano circa 160mila palestinesi. In questi abbiamo organizzato attività di supporto psicosociale per 500 bambini di età tra i 6 e i 12 anni. Dopo la guerra del 2006 abbiamo attivato progetti di risposta all’ emergenza nel sud del libano, attraverso distribuzioni alimentari e di beni di prima necessità, ricostruzioni, assistenza psicosociale, e piano piano abbiamo ampliato le nostre attività all’ambito educativo favorendo l’ inserimento dei bambini nelle strutture scolastiche e formando il personale scolastico. Dal 2006 ad oggi abbiamo quindi lavorato su protezione all’infanzia, interventi di tipo psicosociale e supporto formativo. Da marzo abbiamo incominciato a lavorare con i rifugiati siriani nella valle della Bekaa, nell’area della cittadina di Arsal con interventi sempre indirizzati ai minori, attraverso supporto psicosociale per il superamento del trauma e sostegno educativo.
Vi occupate specificatamente di bambini e scuole.
Sì, quello che facciamo noi anzitutto è protezione all’infanzia. E lo facciamo ad Arsal, che dista circa 40km dal confine con la Siria, ed è il posto dove arrivano la maggior parte delle persone in fuga dalla Siria. Sono due i posti da cui le persone riescono ad scappare e arrivare il libano. A nord nell’area a nord di Tripoli e qui nell’aera di Arsal, a nord est del Libano. Terre des Hommes è arrivata in questa zona a marzo 2012, su indicazione di UNHCR, perché non c’erano altre organizzazioni internazionali attive, nonostante ci fossero già circa 1.500 rifugiati. Quello che abbiamo notato da subito era che i bambini non andavano a scuola, vivevano al limite della sostenibilità, si parla di famigli composte da 5/6 persone che vivevano e continuano a vivere in stanze di 20-30 mq, non di più. Quello che abbiamo cercato di fare è di tentare di dare un minino di tranquillità, normalità, nello stile di vita di questi bambini soprattutto nella fascia di età tra i 6 e i 12 anni. Abbiamo attivato delle classi alternative al sistema scolastico tradizionale e utilizzando degli spazi donati dalla municipalità di Arsal che si è sempre dimostrata molto solidale. In generale tutta la popolazione locale è stata sempre accogliente con i rifugiati che sono arrivati, anche grazie ad un legame culturale, linguistico, storico, di sangue che esiste da sempre tra i due popoli. La municipalità ha quindi facilitato ogni cosa. Abbiamo allestito questi spazi a misura di bambino e poi abbiamo stretto un accordo con il Ministero dell’Educazione libanese per occupare alcune delle strutture scolastiche della città. Abbiamo poi contribuito ad una minima ristrutturazione, alla formazione del personale scolastico e all’attivazione di servizi di supporto psicosociale per i minori. Al momento abbiamo 300 bambini che beneficiano quotidianamente delle nostre attività di supporto psicosociale e 100 bambini nelle classi scolastiche, ma per questo stiamo ampliando proprio in questi giorni le nostre attività per riuscire presto ad avere tra i 700 e gli 800 bambini nelle nostre classi.
Quando parlate di classi s’intende elementari e medie?
Più o meno. Esistono discrepanze oggettive tra il sistema scolastico siriano e quello libanese. In Siria tutte le materie vengono insegnate in arabo mentre in Libano a partire dalla quarta elementare le materie scientifiche, quindi matematica, geografia e biologia, vengono insegnate in inglese o francese a seconda dell’are geografica. Dove siamo attivi con i nostri progetti si usa principalmente il francese. Quello che abbiamo fatto è stato soprattutto di concentrarci sui bambini tra i 6 e i 10/12 anni e dare lezioni di lingua straniera sia inglese che francese, in modo da facilitare l’inserimento nelle classi libanesi all’inizio di quest’anno scolastico. Anche per i ragazzi più grandi, di 12/15 anni, abbiamo attivato delle classi pre scolari, anche se il loro coinvolgimento è stato più difficile. Intervenire sui bambini più grandi è più difficile perché c’è la pretesa che quando vengono inseriti nelle classi delle medie siano ad un livello di conoscenza della lingua straniera tale che siano già in grado di seguire le lezioni delle materie scientifiche.
Come selezionate i bambini che possono accedere ai vostri programmi?
Quando abbiamo attivato le classi avevamo 60 posti disponibili e sono arrivati 120 bambini . Abbiamo continuato a lavorare costantemente per aumentare la nostra capacità di accoglienza. Ogni volta che riusciamo ad ampliare i nostri spazi avvisiamo la municipalità, chiediamo alle moschee di comunicare durante le preghiere che c’è la possibilità di accedere a servizi educativi e di sostegno psicosociale e i genitori portano i bambini. Il personale fa fare dei test d’ingresso e conseguentemente si da priorità a chi ha più difficoltà, a chi ha perso più anni accademici. Diamo precedenza ai bambini che hanno perso più anni accademici. Ci sono persone che sono arrivate qui a marzo 2011 e che da allora non hanno più avuto la possibilità di mandare a scuola i propri figli. Ci sono ragazzi che non frequentano la scuola da quasi due anni. Assicurare loro la ripresa delle lezione e la nostra priorità.
Tornare a scuola rappresenta già un passo importante per ricominciare una vita “normale”. Ma anche i servizi di sostegno psicosociale sono importanti, soprattutto perché le persona che arrivano ad Arsal provengono quasi per la totalità dall’area di Homs e Hama, piuttosto colpite dalla guerra. I bambini che arrivano da voi hanno subito spesso traumi importanti, come gli assistete?
Molti dei bambini che arrivano da noi hanno passato lunghi periodi rinchiusi in casa, senza poter uscire, senza giocare. Hanno vissuto i bombardamenti, hanno visto uccidere persone. La settimana scorsa, in uno dei nostri centri, due bambini stavano disegnando cose terribili. Carri armati, persone morte circondate da sangue. Mi hanno guardato spiegandomi che uno era il soldato dell’esercito del governo, l’altro era uno delle forze d’opposizione e che si stavano sparando… quello che notiamo è che appena arrivano da noi non vogliono assolutamente essere fotografati, non vogliono parlare, non vogliono registrarsi, non ti dicono come si chiamano, non vogliono raccontare nulla della propria vita. Quello che facciamo inizialmente è di dar loro un tesserino con un numero, così che gli riusciamo ad identificare, ad andargli a prendere a “casa”… poi piano piano incominciamo a coinvolgerli in giochi sociali, anche per strada, cerchiamo di fargli fare gruppo tra loro. Organizziamo attività dirette a sciogliere lo stress, arte, disegno, pittura, mirate ad far uscire le loro paure e dopo un paio di settimane vediamo la trasformazione. I ragazzi iniziano a riapprezzare il gioco, parlano, ridono, i genitori prendono confidenza e incominciano a raccontare le loro storie. Tutto il nucleo famigliare inizia una vera trasformazione. Per noi sono risultati importanti.
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